Sentenza n. 221 del 2023

SENTENZA N. 221

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14 (Istituzione dell’Albo degli amministratori giudiziari, a norma dell’articolo 2, comma 13, della legge 15 luglio 2009, n. 94), promosso dalla Corte d’appello di Roma, sezione quarta penale, sull’istanza proposta da E. R., con ordinanza del 18 gennaio 2023, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di E. R., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 novembre 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi gli avvocati Luca Amedeo Melegari e Raffaella Romagnoli per E. R. e l’avvocato dello Stato Domenico Maimone per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 22 novembre 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2023, iscritta al n. 17 del registro ordinanze 2023, la Corte d’appello di Roma, quarta sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14 (Istituzione dell’Albo degli amministratori giudiziari, a norma dell’articolo 2, comma 13, della legge 15 luglio 2009, n. 94), in riferimento agli artt. 36 e 54 della Costituzione.

Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto, che un amministratore giudiziario aveva impugnato il decreto di liquidazione del compenso, nella misura di euro 1.940,92 oltre l’imposta sul valore aggiunto (IVA), emesso per l’attività di accertamento dei crediti e assistenza al giudice all’udienza di verifica degli stessi, nell’ambito di una procedura di prevenzione definita in primo grado dallo stesso Tribunale, lamentando l’esiguità della somma riconosciutagli, sebbene avesse dovuto esaminare domande presentate dai creditori per un valore complessivo di oltre un miliardo e trecento milioni di euro, formulando, dopo aver verificato la documentazione allegata alle medesime e la sussistenza di cause di esclusione dell’ammissione del credito previste dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), argomentate proposte di ammissione o di esclusione allo stato passivo, in forza dell’art. 58, comma 5-bis, dello stesso decreto.

In particolare, il giudice a quo evidenzia che il ricorrente aveva impugnato il provvedimento di liquidazione poiché il compenso era stato determinato intendendo l’espressione «passivo accertato», contenuta nell’art. 3, comma 3, del d.P.R. 7 ottobre 2015, n. 177 (Regolamento recante disposizioni in materia di modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti nell’albo di cui al decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14), come riferita ai crediti ammessi senza riserva dal giudice delegato all’esito dell’udienza di verifica dei crediti e non già, come sarebbe dovuto correttamente avvenire secondo il professionista, in forza delle complesse attività demandate allo stesso dal predetto art. 58, comma 5-bis, cod. antimafia, alle istanze di credito esaminate indipendentemente dall’esito ottenuto nella verifica di ciascuna di esse.

Come riferito nell’ordinanza di rimessione, tale interpretazione della locuzione «passivo accertato» potrebbe portare con sé il rischio, ad avviso dell’impugnante, che i professionisti propongano per l’ammissione anche crediti che non ne avrebbero i presupposti al fine di ottenere il compenso. Inoltre, irragionevolmente, non si terrebbe conto della circostanza che il «passivo accertato» potrebbe aumentare in maniera considerevole ove fossero accolte le opposizioni dei creditori esclusi.

Il ricorrente chiedeva, per tali ragioni, che gli fosse riconosciuto, intendendo la locuzione «passivo accertato» come relativa a tutte le domande dei creditori presentate nella procedura di prevenzione, un compenso di euro 3.386.189,73, comunque non inferiore al minimo di euro 781.476,77, da porsi a carico dell’erario, non avendo la procedura risorse all’uopo sufficienti.

Alla successiva udienza, come riferisce ulteriormente la Corte d’appello di Roma, il professionista precisava di aver già ricevuto per la generale attività di gestione del compendio sequestrato nella medesima procedura una somma di circa euro 1.200.000,00, e deduceva, nei propri scritti difensivi, che non sarebbe stata necessaria la proposizione di una questione di legittimità costituzionale per l’accoglimento dell’impugnazione, potendosi a suo avviso pervenire in via interpretativa alla soluzione auspicata, poiché la locuzione «passivo accertato» dovrebbe essere intesa in modo da ricomprendere tutti i crediti esaminati dall’amministratore giudiziario, stante la strutturale diversità tra le attività rimesse allo stesso e quelle proprie del curatore nell’accertamento dei crediti. 

Ciò premesso, il giudice rimettente ricorda che l’espressione «passivo accertato» di cui all’art. 3, comma 3, del richiamato d.P.R. n. 177 del 2015, è analoga a quella contenuta nell’art. 1, comma 2, del decreto del Ministro della giustizia 25 gennaio 2012, n. 30 (Regolamento concernente l’adeguamento dei compensi spettanti ai curatori fallimentari e la determinazione dei compensi nelle procedure di concordato preventivo), talché la relativa nozione coincide per entrambe le norme ed è stata intesa dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che essa è riferita esclusivamente ai crediti ammessi senza riserva (è citata Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 31 maggio 2021, n. 15168, con riferimento al compenso spettante ai curatori fallimentari), ossia di pieno riscontro del credito (è citata anche Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 13 aprile 2000, n. 4751).

In punto di non manifesta infondatezza, osserva la Corte d’appello di Roma che l’art. 3, comma 3, del predetto d.P.R. n. 177 del 2015, è una norma regolamentare emanata senza una valida base normativa, poiché l’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010 non fornisce indicazioni sull’introduzione di una voce della tariffa anche per l’attività di accertamento dei crediti da parte dell’amministratore giudiziario; né questa lacuna non potrebbe essere colmata avendo riguardo a norme di riferimento per attività simili, trattandosi di disposizioni di stretta interpretazione in quanto relative ai compensi per lo svolgimento di un munus publicum; né potrebbero trovare applicazione analogica le disposizioni dettate per il relativo compenso dei curatori nelle procedure concorsuali liquidatorie, i quali svolgono un’attività molto diversa.

La conseguente esclusione di un compenso per lo svolgimento dell’attività di accertamento dei crediti e di assistenza al giudice delegato svolta dagli amministratori giudiziari nella verifica degli stessi potrebbe porsi in contrasto, ad avviso del giudice a quo, tanto con l’art. 36 Cost., ossia con il principio per il quale ogni forma di lavoro deve essere adeguatamente retribuita, quanto con l’art. 54 Cost., perché gli amministratori giudiziari sono ausiliari del giudice. Né sarebbe conforme «ad equità» trarre ispirazione dai criteri che presidiano la determinazione del compenso del curatore fallimentare (recte: nella liquidazione giudiziale) per analoghe attività, in quanto dovrebbe invece essere previsto un compenso per tutti i crediti analizzati, al fine di evitare un potenziale conflitto di interessi del professionista rispetto all’attività ad esso demandata.

In punto di rilevanza, infine, sottolinea la Corte rimettente che, dovendo essere disapplicato l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015, perché emanato in assenza di una valida base normativa, in assenza di un intervento di questa Corte, non residuerebbe alcun criterio per il riconoscimento di un compenso all’amministratore ricorrente.

2.– Si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale l’amministratore giudiziario E. R. osservando che non è possibile, ai fini della determinazione del compenso degli amministratori giudiziari per l’attività di accertamento dei crediti fatti valere nei confronti del prevenuto e di assistenza al giudice delegato nella verifica dei crediti, fare riferimento ai criteri previsti per il curatore fallimentare, trattandosi di attività eterogenee, poiché solo i primi devono effettuare a tal fine le specifiche e complesse attività ad essi demandate dal codice antimafia. Secondo la parte ciò comporta che nelle procedure di prevenzione, di norma, è ammesso un numero di crediti significativamente inferiore rispetto a quanto avviene nelle procedure di liquidazione giudiziale (e, in precedenza, di fallimento).

3.– Con atto depositato il 13 marzo 2023 è, inoltre, intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo, sotto un primo profilo, l’inammissibilità delle questioni perché fondate su parametri quali gli artt. 36 e 54 Cost., evocati in maniera generica e non pertinente e, sotto un secondo profilo, la loro manifesta infondatezza.

In particolare, quanto all’art. 54 Cost., la difesa dello Stato rileva che non si comprenderebbe l’attinenza della dedotta assenza di una disposizione che disciplina il regime dei compensi dell’amministratore giudiziario per le attività di verifica dei crediti rispetto al dovere di tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi, ovvero quello di adempiere con disciplina ed onore alle funzioni pubbliche loro affidate.

Con riferimento all’art. 36 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea che il giudice rimettente non solo assimila il compenso dell’ausiliario alla retribuzione, ma non descrive le ragioni della violazione del detto parametro, vieppiù alla luce dell’elevata remuneratività dei compensi degli amministratori giudiziari.

La questione, inoltre, sarebbe inammissibile in quanto sottoposta a questa Corte in modo contraddittorio, poiché, per un verso, il Collegio a quo assume che manca una disposizione che disciplina il compenso degli amministratori giudiziari per tale specifica attività e, per un altro, contesta l’utilizzo a tal fine di un criterio analogo a quello previsto per i curatori «fallimentari».

Sempre in punto di inammissibilità, rileva l’Avvocatura generale dello Stato che non viene indicato nell’ordinanza di rimessione alcun valido tertium comparationis al quale ancorare nel merito una eventuale pronuncia additiva proprio perché non è condivisa l’assimilazione al modello normativo prescelto dal d.P.R. n. 177 del 2015, che si riconduce ai criteri di cui al d.m. 25 gennaio 2012 sul compenso per i curatori fallimentari. Sicché la determinazione del compenso degli amministratori giudiziari sarebbe rimessa a un’inammissibile attività “creativa” di questa Corte.

Ad ogni modo, sottolinea ulteriormente la stessa difesa dello Stato, la questione sarebbe manifestamente infondata perché non esiste la lacuna denunciata dalla Corte d’appello di Roma, atteso che l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015, prevede espressamente un compenso supplementare in favore dell’amministratore giudiziario se assiste il giudice per la verifica dei crediti, non potendosi assimilare il rapporto tra legge e regolamento a quello tra legge delega e decreto legislativo, vieppiù considerando che il predetto decreto è, come indicato dalla norma primaria censurata, un regolamento sia di attuazione che di integrazione, consentita alla normazione secondaria ex art. 17, comma 1, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), in materie non riservate alla legge.

Osserva, di poi, il Presidente del Consiglio dei ministri che, nell’ambito della propria discrezionalità, in maniera non irragionevole il legislatore ha individuato regole uniformi per la determinazione dei compensi del curatore fallimentare e dell’amministratore giudiziario atteso che è del tutto indimostrato l’assunto di una maggiore complessità dell’attività del secondo, poiché in entrambe le ipotesi è il giudice delegato a dover verificare i crediti.

Infine, secondo l’Avvocatura generale, in ogni caso, i parametri evocati non comporterebbero l’illegittimità costituzionale di una previsione che avesse effettivamente escluso uno specifico compenso dell’amministratore giudiziario per le attività di assistenza del giudice nella verifica dei crediti delle misure di prevenzione patrimoniale, poiché, da un lato, l’art. 54 Cost. descrive l’esercizio delle funzioni pubbliche come munus, ciò che legittima la previsione di limiti alla rimunerazione dell’ufficio esercitato e, per un altro, quanto all’art. 36 Cost., i compensi degli amministratori giudiziari, come dimostrato proprio nella procedura presupposta dove il professionista aveva già percepito un elevato compenso, rende evidente che gli stessi sarebbero comunque proporzionali alla qualità e quantità del lavoro prestato.

4.– Con memoria depositata in data 30 ottobre 2023, E. R. ha replicato alle deduzioni contenute nell’atto di intervento dell’Avvocatura generale, evidenziando, per un verso, che non sussisterebbe alcun «diritto vivente» rispetto alla ricostruzione della nozione di «passivo accertato» se non nella materia fallimentare, che deve ritenersi del tutto differente da quella di prevenzione, anche quanto alla verifica dei crediti, poiché ai fini dell’ammissione dei crediti al passivo nella liquidazione giudiziale non se ne deve vagliare previamente anche la liceità, e puntualizzando, per un altro, di non aver già ottenuto, come da allegati contestualmente depositati, a titolo di liquidazione per l’attività svolta nella stessa procedura la somma di circa euro 1.200.000,00, bensì un importo inferiore, pari circa alla metà di tale somma.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2023 (reg. ord. n. 17 del 2023), la Corte d’appello di Roma, sezione quarta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010, in riferimento agli artt. 36 e 54 Cost.

Come evidenzia il giudice rimettente, un amministratore giudiziario aveva impugnato in appello il decreto di liquidazione del compenso nella misura di euro 1.940,92 oltre l’IVA, emesso dal Tribunale di primo grado per l’attività di accertamento dei crediti ed assistenza al giudice all’udienza di verifica degli stessi, assumendo che il compenso liquidato era inadeguato rispetto alla complessa attività svolta nella procedura, consistente nell’esame di domande dei creditori per un valore complessivo di oltre un miliardo e trecento milioni di euro, e nella formulazione, previa verifica della documentazione, di argomentate proposte di ammissione o di esclusione allo stato passivo, in forza dell’art. 58, comma 5-bis, cod. antimafia.

Segnatamente, come ricorda il giudice a quo, il professionista riteneva inadeguata la liquidazione compiuta dal Tribunale che aveva interpretato a tal fine l’espressione «passivo accertato», contenuta nell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015, come riferita ai crediti ammessi senza riserva dal giudice delegato all’esito dell’udienza di verifica dei crediti e non già, come sarebbe dovuto correttamente avvenire, secondo il professionista, in forza delle complesse attività demandate allo stesso, alle istanze di credito esaminate, indipendentemente dall’esito ottenuto in sede di verifica di ciascuna di esse.

Ciò evidenziato in punto di fatto, la Corte di appello di Roma, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, osserva che l’art. 3, comma 3, del predetto d.P.R. n. 177 del 2015, è una norma regolamentare che resta sottratta, come tale, al sindacato “diretto” di questa Corte. Tuttavia, la censura si appunta sul fatto che si tratta di una disposizione emanata senza una valida base normativa, poiché l’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010 non fornisce indicazioni sull’introduzione di una voce della tariffa anche per l’attività di accertamento dei crediti da parte dell’amministratore giudiziario; né questa lacuna non potrebbe essere colmata avendo riguardo a norme di riferimento per attività simili, trattandosi di disposizioni di stretta interpretazione in quanto relative ai compensi per lo svolgimento di un munus publicum; né potrebbero trovare applicazione analogica le disposizioni dettate per il relativo compenso dei curatori nelle procedure concorsuali liquidatorie, i quali svolgono un’attività molto diversa.

La conseguente esclusione di un compenso per l’attività di accertamento dei crediti e di assistenza al giudice delegato svolta dagli amministratori giudiziari nella verifica degli stessi potrebbe porsi in contrasto, secondo il giudice a quo, tanto con l’art. 36 Cost., ossia con il principio per il quale ogni forma di lavoro deve essere adeguatamente retribuita, quanto con l’art. 54 Cost., perché gli amministratori giudiziari sono ausiliari del giudice.

Quanto alla rilevanza, il Collegio rimettente evidenzia che, dovendo essere disapplicato l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015, perché emanato senza una valida base normativa, in assenza di un intervento di questa Corte, non residuerebbe alcun criterio per il riconoscimento di un compenso all’amministratore ricorrente.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato deduce in via preliminare l’inammissibilità delle questioni sollevate per carente motivazione sui parametri evocati.

L’eccezione non è fondata con riguardo all’art. 36 Cost., poiché l’ordinanza di rimessione argomenta adeguatamente l’affermata violazione del parametro, assumendo che non sarebbe previsto alcun compenso per lo svolgimento dell’attività dell’amministratore giudiziario di assistenza al giudice delegato nella verifica dei crediti, in violazione del principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Per converso, l’eccezione è fondata con riguardo all’art. 54 Cost., atteso che il giudice rimettente non spiega per quale ragione ritiene la norma censurata in contrasto con tale precetto costituzionale, se si eccettua un riferimento incidentale alla natura di munus pubblico dell’incarico svolto; riferimento, tuttavia, che non è sviluppato poi sul piano argomentativo. Talché il parametro è stato evocato in maniera apodittica e generica, senza la specificazione dei motivi per i quali la Corte d’appello di Roma ha assunto che si sia verificata la sua violazione, con conseguente inammissibilità della questione sollevata in relazione allo stesso (ex multis, sentenze n. 135 e n. 32 del 2023, n. 136 e n. 34 del 2022; ordinanze n. 159 del 2021, n. 261 del 2012, n. 180 e n. 31 del 2011).

3.– Sempre in via preliminare, la difesa dello Stato deduce che le sollevate questioni sono formulate in maniera contraddittoria poiché, da un lato, il giudice a quo assume che non è previsto alcun compenso per l’amministratore giudiziario per l’attività di assistenza al giudice nella verifica dei crediti e, dall’altro, sostiene che è irragionevole la comparazione con il compenso previsto per il curatore fallimentare, che svolge attività analoghe, ma meno complesse.

Ed invero, questa Corte ha ritenuto l’inammissibilità delle questioni sollevate con ordinanze le cui modalità argomentative tradiscono un’incertezza e contraddittorietà del petitum che non consente di enucleare con chiarezza il contenuto delle censure (tra le altre, sentenze n. 123 del 2021 e n. 224 del 2020; ordinanze n. 116 del 2022, n. 18 del 2021 e n. 261 del 2020).

Nel caso di specie, tuttavia, il verso delle questioni sollevate è chiaro, nel senso che la censura concerne l’assunta mancata previsione del compenso per l’attività dell’amministratore giudiziario di assistenza nella verifica dei crediti, mentre le considerazioni su quello contemplato per i curatori fallimentari sono effettuate in chiave comparativa e quindi meramente argomentativa.

4.– L’Avvocatura generale eccepisce, ulteriormente, l’inammissibilità delle questioni per la manipolatività del petitum poiché il giudice a quo finirebbe con il domandare a questa Corte l’individuazione del compenso che spetterebbe, per l’attività in questione, all’amministratore giudiziario.

Anche tale eccezione non è fondata.

Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, il petitum dell’ordinanza di rimessione ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure mosse dal giudice rimettente.

Questa Corte, ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, non essendo vincolata alla formulazione del petitum dell’ordinanza di rimessione nel rispetto dei parametri evocati, stante anche che «l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate» non compromette l’ammissibilità delle questioni stesse (ex plurimis, sentenza n. 59 del 2021) quando sia rinvenibile nell’ordinamento una soluzione adeguata al parametro di riferimento.

Questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 157 e n. 63 del 2021) ha ritenuto che la «ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale risulta […] condizionata non tanto dall’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (si veda, da ultimo, la sentenza n. 252 del 2020 e in senso conforme le sentenze n. 224 del 2020; n. 99 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018; n. 236 del 2016)».

Solo se manca una soluzione costituzionalmente adeguata o se «il superamento dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale esige un intervento di sistema del legislatore» (sentenza n. 47 del 2023), allora la questione è inammissibile (sulla necessità di una revisione di sistema, quale limite di ammissibilità della questione con cui si solleciti l’intervento di questa Corte, vedi sentenze n. 202, n. 143, n. 100 e n. 1 del 2022, n. 151, n. 33 e n. 32 del 2021, n. 80 e n. 47 del 2020); ciò che non può dirsi delle questioni attualmente sollevate, che concernono, in termini specifici e limitati, il compenso per l’amministratore giudiziario per l’attività di verifica dei crediti nella procedura di prevenzione a carattere patrimoniale.

5.– All’esame del merito delle questioni sollevate è opportuno premettere, in sintesi, il quadro normativo di riferimento nel quale si colloca la disposizione censurata.

A fronte dell’emanazione di un provvedimento di sequestro di prevenzione finalizzato alla confisca, sorge il problema della tutela dei creditori del proposto che rischiano di veder svanire la garanzia patrimoniale sulla quale avevano costruito il proprio affidamento in virtù del principio della generale responsabilità del debitore sancito dall’art. 2740 del codice civile e, non di rado, anche in forza di garanzie reali su alcuni beni.

Si tratta di una questione che involge un necessario contemperamento tra il diritto dei creditori di soddisfarsi sui beni del debitore e l’esigenza di evitare che il proposto si riappropri dei beni oggetto della misura, ovvero che gli stessi beni siano destinati a soddisfare creditori che avevano contratto con lo stesso nella consapevolezza che l’attività economica svolta era illecita, ovvero diretta a celare attività illecite o al riciclaggio di denaro (ex ceteris, sentenze n. 18 del 2023, n. 26 del 2019 e n. 94 del 2015).

Una prima regolamentazione normativa degli aspetti relativi alla tutela dei creditori è stata introdotta, difatti, solo dal codice antimafia, in omaggio ai criteri direttivi sanciti dall’art. 1, comma 3, lettera f), della legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia).

Con il codice antimafia, il legislatore, in attuazione della delega, ha quindi introdotto nel Titolo IV, all’art. 52 e seguenti, una disciplina specifica per la tutela dei diritti dei terzi coinvolti nel procedimento di prevenzione patrimoniale. Tali disposizioni sono state oggetto di interventi additivi di questa Corte che hanno finito con l’estendere detta tutela a tutti i creditori per titoli antecedenti al sequestro di prevenzione e non solo a quelli che vantavano un diritto reale sui beni oggetto della misura (sentenze n. 26 del 2019 e n. 94 del 2015).

5.1.– Quanto alla struttura del procedimento di accertamento dei crediti, è stata recepita, in misura pressoché integrale, la regolamentazione dettata all’epoca per il fallimento dal regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), che, nella sua struttura, è rimasta inalterata per la liquidazione giudiziale dopo l’emanazione del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155).

Il procedimento per l’accertamento dei crediti prevede che, per ottenere il riconoscimento del credito, l’istante deve in primo luogo dimostrare l’anteriorità del diritto rispetto al sequestro e provare, in secondo luogo, che il credito concesso al proposto non fosse strumentale all’attività delittuosa, o di aver comunque ignorato tale circostanza in buona fede.

Il giudice delegato, assistito dall’amministratore giudiziario, verifica, in particolare, le domande presentate, indicando distintamente i crediti che ritiene di ammettere con le eventuali cause di prelazione e quelli che ritiene di non ammettere, in tutto o in parte, esponendo sommariamente i motivi dell’esclusione.

Una volta concluso l’esame delle domande, il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria e comunicato all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nonché notificato agli interessati a cura dell’amministratore giudiziario.

6.– Per ciò che rileva maggiormente quanto alle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Roma, alcuni compiti specifici sono demandati all’amministratore giudiziario nel procedimento sinora descritto.

In particolare, già dopo la pronuncia del sequestro di prevenzione, l’amministratore è tenuto ad allegare alle relazioni da presentare al giudice delegato l’elenco nominativo di tutti i creditori anteriori al sequestro, corredato dell’indicazione dei crediti e delle rispettive scadenze e dall’elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali di godimento o garanzia o diritti personali sui beni, con l’elencazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto.

A seguito delle modifiche introdotte all’interno del codice antimafia dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate), è stato inoltre previsto, anche sul piano normativo, ed in conformità a una prassi già diffusa in alcuni uffici giudiziari, un diretto coinvolgimento dell’amministratore giudiziario nell’esame delle domande e nella redazione del progetto di stato passivo.

È stato stabilito, in particolare, che l’amministratore giudiziario esamina le domande e redige un progetto di stato passivo rassegnando le proprie motivate conclusioni sull’ammissione o sull’esclusione di ciascuna domanda (art. 58, comma 5-bis, cod. antimafia) e deposita il progetto di stato passivo almeno venti giorni prima dell’udienza fissata per la verifica dei crediti. I creditori e i titolari dei diritti sui beni oggetto di confisca possono presentare osservazioni scritte e depositare documentazioni aggiuntive, a pena di decadenza, fino a cinque giorni prima dell’udienza (art. 58, comma 5-ter, cod. antimafia).

L’amministratore giudiziario partecipa, poi, all’udienza di verifica dei crediti celebrata dinanzi al giudice delegato e, una volta approvato il progetto di stato passivo con decreto, dà notizia del relativo deposito agli interessati non presenti, inviando una raccomandata con avviso di ricevimento.

7.– Quanto poi alla normativa di riferimento per la determinazione dei compensi degli amministratori giudiziari, per un lungo periodo di tempo, in assenza di criteri sul piano legislativo, la giurisprudenza aveva fatto ricorso all’equità (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 28 settembre-13 novembre 2017, n. 51600) ovvero, se l’amministratore era un professionista iscritto a un albo, alle tariffe di riferimento previste per lo svolgimento delle relative attività (Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 22 agosto 2019, n. 21592).

L’art. 2, comma 13, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nel contemplare l’introduzione dell’Albo degli amministratori giudiziari, aveva demandato ad un successivo decreto legislativo le relative previsioni nonché l’introduzione dei parametri per la liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari.

In base a tale previsione normativa, l’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010 ha, a propria volta, rimesso ad un decreto del Presidente della Repubblica, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera b), della legge n. 400 del 1988, su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e dell’economia e delle finanze, di stabilire, in generale, le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari.

Nel comma 2 del richiamato art. 8, il legislatore ha inoltre indicato dettagliati criteri direttivi per la determinazione dei compensi degli amministratori giudiziari da parte del predetto regolamento.

Nello specifico, detto comma ha stabilito che il d.P.R. di cui al comma 1 era tenuto a rispettare una serie di norme di principio, ovvero: «a) previsione di tabelle differenziate per singoli beni o complessi di beni, e per i beni costituiti in azienda; b) previsione che, nel caso in cui siano oggetto di sequestro o confisca patrimoni misti, che comprendano sia singoli beni o complessi di beni che beni costituiti in azienda, si applichi il criterio della prevalenza, con riferimento alla gestione più onerosa, maggiorato di una percentuale da definirsi per ogni altra tipologia di gestione meno onerosa; c) previsione che il compenso sia comunque stabilito sulla base di scaglioni commisurati al valore dei beni o dei beni costituiti in azienda, quale risultante dalla relazione di stima redatta dall’amministratore giudiziario, ovvero al reddito prodotto dai beni; d) previsione che il compenso possa essere aumentato o diminuito, su proposta del giudice delegato, nell’ambito di percentuali da definirsi e comunque non eccedenti il 50 per cento, sulla base dei seguenti elementi: 1) complessità dell’incarico o concrete difficoltà di gestione; 2) possibilità di usufruire di coadiutori; 3) necessità e frequenza dei controlli esercitati; 4) qualità dell’opera prestata e dei risultati ottenuti; 5) sollecitudine con cui sono state condotte le attività di amministrazione; e) previsione della possibilità di ulteriore maggiorazione a fronte di amministrazioni estremamente complesse, ovvero di eccezionale valore del patrimonio o dei beni costituiti in azienda oggetto di sequestro o confisca, ovvero ancora di risultati dell’amministrazione particolarmente positivi; f) previsione delle modalità di calcolo e liquidazione del compenso nel caso in cui siano nominati più amministratori per un’unica procedura».

Con il d.P.R. n. 177 del 2015 è stato emanato il regolamento recante disposizioni in materia di modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti nell’albo di cui al d.lgs. n. 14 del 2010.

Oggetto di tale regolamento (cosiddetto tariffa), come precisato dall’art. 1, comma 1, è l’intera disciplina delle modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti nell’albo istituito a norma dell’art. 1 del d.lgs. n. 14 del 2010, per l’attività da essi svolta.

In particolare, al fine della liquidazione del compenso, sono stati adottati criteri omogenei a quelli previsti in materia di procedure concorsuali dal d.m. 25 gennaio 2012, stante che l’attività svolta dagli amministratori giudiziari presenta significative analogie con quella dei curatori fallimentari, come rilevato nella relazione illustrativa e risultante dalle stesse premesse del decreto.

I principali criteri di determinazione del compenso sono contemplati dall’art. 3 del citato regolamento mediante un meccanismo a scaglioni progressivi in base a percentuali che si riducono con l’aumento del valore, distinguendo, a seconda che l’amministratore giudiziario gestisca direttamente l’azienda oggetto di sequestro ovvero la stessa sia gestita da terzi in virtù di un contratto di affitto, o, ancora, si tratti di beni immobili non costituiti in azienda (comma 1).

Quando l’amministratore giudiziario gestisce direttamente l’azienda è, inoltre, corrisposto allo stesso un ulteriore compenso pari al 5 per cento sugli utili netti e dello 0,50 per cento sull’ammontare dei ricavi lordi conseguiti (comma 4).

All’amministratore spetta, inoltre, un rimborso forfettario delle spese generali in una misura compresa tra il 5 e il 10 per cento sull’importo del compenso, nonché il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, inclusi i costi dei coadiutori (comma 8).

È anche significativo considerare che l’art. 4, comma 1, del regolamento consente all’autorità giudiziaria di aumentare o ridurre l’ammontare del compenso liquidato a norma del precedente art. 3. In particolare, la variazione può avvenire in misura non superiore al 50 per cento in base ad una serie di criteri, id est: «a) complessità della gestione; b) ricorso all’opera di coadiutori; c) necessità e frequenza dei controlli esercitati; d) qualità dell’opera prestata e dei risultati ottenuti; e) sollecitudine con cui sono state condotte le attività di amministrazione, ivi compreso l’adempimento degli obblighi di segnalazione gravanti sugli amministratori; f) numero dei beni compresi nel compendio sequestrato».

Il comma 2 dello stesso art. 4 stabilisce, poi, che il compenso può essere aumentato in misura non superiore al 100 per cento a fronte di amministrazioni estremamente complesse ovvero di eccezionale valore del patrimonio o dei beni costituiti in azienda sequestrati, ovvero di risultati dell’amministrazione particolarmente positivi.

Una specifica norma è dedicata, con diretto riguardo alle questioni sollevate dal giudice rimettente, al compenso dell’amministratore giudiziario per l’assistenza all’autorità giudiziaria nell’attività di verifica dei crediti: l’art. 3, comma 3, del regolamento stabilisce espressamente, infatti, che «[q]uando l’amministratore giudiziario assiste il giudice per la verifica dei crediti è inoltre corrisposto, sull’ammontare del passivo accertato, un compenso supplementare dallo 0,19% allo 0,94% sui primi 81.131,38 euro e dallo 0,06% allo 0,46% sulle somme eccedenti tale cifra».

Sotto un distinto e più generale profilo, non si può infine trascurare di considerare che, di recente, il legislatore, con l’art. 4, comma 1, del decreto-legge 5 gennaio 2023, n. 2 (Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 3 marzo 2023, n. 17, ha inserito nella norma censurata il nuovo comma 2-bis, secondo cui «[n]ei casi riguardanti le grandi imprese per le quali trova applicazione il decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, all’esito delle liquidazioni derivanti dall’applicazione del regolamento di cui ai commi 1 e 2, i compensi degli amministratori giudiziari non possono comunque eccedere il limite massimo complessivo di euro 500.000 anche in caso di incarico collegiale».

8.– Ciò premesso, la questione, sollevata dalla Corte d’appello di Roma in riferimento all’art. 36 Cost., non è fondata.

9.– Il ragionamento del giudice rimettente muove dall’erroneo presupposto interpretativo secondo il quale mancherebbe una disciplina del compenso dell’amministratore giudiziario per l’attività di assistenza al giudice delegato nella verifica dei crediti. Ciò perché il (sopra richiamato) regolamento, adottato con il d.P.R. n. 177 del 2015 ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera b), della legge n. 400 del 1988 – che testualmente, all’art. 3, stabilisce i criteri per la determinazione dei compensi spettanti agli amministratori giudiziari – in realtà non sarebbe potuto intervenire su tale aspetto in assenza di un “criterio di delega”, mancante nella fonte primaria di riferimento, ossia nell’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010. Esso pertanto – secondo il giudice rimettente – è tamquam non esset.

Tale impostazione non è corretta, in quanto si basa, in materia non assoggettata a riserva assoluta di legge, su una ricostruzione del rapporto tra legge e regolamento in termini analoghi a quelli della delega legislativa; ricostruzione questa che, oltre a non fondarsi su alcun precetto della Costituzione, che fa riferimento solo al rapporto tra legge di delega e decreto legislativo (art. 76 Cost.), è contraddetta proprio dal richiamato art. 17, comma 1, lettera b), della legge n. 400 del 1988 che rimette ai regolamenti governativi, in termini ampi, non solo l’attuazione, ma anche l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio.

Quindi – come affermato da questa Corte in fattispecie analoga – «non viene in rilievo alcuna delega legislativa, avendo la norma censurata rinviato, per la sua attuazione, a un decreto ministeriale» (sentenza n. 150 del 2023; in senso analogo, più recentemente, sentenza n. 209 del 2023).

Nella fattispecie in esame, la disposizione censurata demanda in via generale alla normativa secondaria proprio l’introduzione delle «modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari». La fonte primaria, al comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010, ha quindi rimesso a quella regolamentare la determinazione del compenso degli amministratori giudiziari in tutte le relative componenti, fornendo peraltro, al comma 2, indicazioni più dettagliate nelle norme di principio dettate per specifiche attività svolte dagli stessi.

Vi è dunque che, a differenza di quanto ritenuto dal giudice a quo, tale norma regolamentare – l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015 – contiene una puntuale previsione che disciplina, in modo legittimo perché rispettosa dell’art. 17, comma 1, lettera b), della legge n. 400 del 1988, il compenso dell’amministratore giudiziario per la specifica attività di assistenza al giudice nella verifica dei crediti, determinando lo stesso a scaglioni progressivi con riguardo all’ammontare del «passivo accertato», come già previsto per il curatore fallimentare.

10.– In definitiva, l’analogia tra i compiti demandati all’amministratore giudiziario e quelli del curatore fallimentare (oggi, del curatore nella liquidazione giudiziale) giustifica la scelta di stabilire per il primo compensi analoghi a quelli già previsti per quest’ultimo dal d.m. 25 gennaio 2012, quanto alla verifica dei crediti suscettibili di essere ammessi allo stato passivo; scelta che si palesa non irragionevole perché il procedimento di accertamento dei crediti è stato costruito, come si è evidenziato, dagli artt. 52 e seguenti cod. antimafia, proprio seguendo lo schema contemplato per le procedure concorsuali liquidatorie. Giustificato, quindi, è anche il ricorso alla nozione di «passivo accertato», sulla base del quale calcolare il relativo compenso spettante all’amministratore giudiziario; compenso che – come affermato dalla giurisprudenza (Cass., n. 15168 del 2021) – richiede la statuizione giudiziale di pieno riscontro del credito.

11.– Il sistema così ricostruito vede dunque la norma primaria (art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010) integrata dal regolamento attuativo (l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015); è infatti «possibile il sindacato di costituzionalità sulla norma primaria tenendo conto che quella subprimaria ne costituisce un “completamento del contenuto prescrittivo”» (sentenza n. 200 del 2018; in senso analogo anche sentenza n. 3 del 2019). Così delimitata la disciplina censurata, essa non contrasta con il parametro evocato.

Da una parte – come già affermato da questa Corte – «la natura occasionale della prestazione dell’ausiliario del magistrato o del difensore d’ufficio impedisce di ricostruirne l’incidenza sulla formazione del reddito complessivo del singolo prestatore e quindi non consente neppure di impostare la valutazione del relativo compenso nei termini della retribuzione adeguata e sufficiente» (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2021, n. 90 del 2019, n. 13 del 2016 e n. 192 del 2015).

Dall’altra, la garanzia dell’art. 36, primo comma, Cost., che assicura il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, quand’anche riferita alla remunerazione degli ausiliari del giudice, implica comunque una valutazione globale del trattamento retributivo e non già selettiva, con riferimento specifico a singoli emolumenti o prestazioni.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini della valutazione della giusta retribuzione è necessario fare riferimento a quella complessivamente considerata (ex plurimis, sentenze n. 27 del 2022, n. 71 del 2021, n. 96 del 2016 e n. 178 del 2015).

Proprio con riferimento agli ausiliari del giudice, questa Corte (sentenza n. 90 del 2019) ha affermato che l’adeguatezza del compenso postula «un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione», ricostruendo «l’incidenza delle singole prestazioni sulla complessiva attività dell’ausiliario» e sulla formazione dell’intero compenso dello stesso.

Ne deriva che il compenso, previsto dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015 per l’attività dell’amministratore giudiziario di assistenza al giudice delegato nella verifica dei crediti per la formazione dello stato passivo, costituisce un trattamento retributivo comunque adeguato anche perché esso si aggiunge ad altre voci, le quali consentono all’ausiliario di ottenere un onorario senz’altro congruo in assoluto, al punto che il legislatore è intervenuto con il recente art. 4, comma 1, del d.l. n. 2 del 2023, come convertito, per stabilirne, in alcuni casi, un “tetto” massimo pari ad euro 500.000,00.

Mette conto notare anche che, nel parere reso sullo schema del d.P.R. n. 177 del 2015, reso dalla sezione consultiva per gli atti normativi nell’Adunanza di sezione del 21 maggio 2015 (parere n. 01692 del 10 giugno 2015), il Consiglio di Stato aveva evidenziato che proprio lo specifico compenso supplementare contemplato dall’art. 3, comma 3, appariva finanche ingiustificato «trattandosi di prestazione assorbibile nella maggiorazione per la complessità della gestione prevista dal comma 1, lettera a) dell’art. 4».

Inoltre, nell’assetto attuale, non è priva di rilievo la possibilità di riconoscere all’amministratore giudiziario anche un compenso più elevato per l’attività di verifica dei crediti, poiché, nelle ipotesi di peculiare complessità della stessa, esso può essere aumentato, secondo quanto previsto dall’art. 4 della cosiddetta tariffa, sino alla misura del 100 per cento.

12.– In conclusione, il compenso dell’amministratore giudiziario, previsto dall’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010, come integrato dal regolamento attuativo (l’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 177 del 2015), per l’attività di assistenza al giudice delegato nella verifica dei crediti da parte dell’amministratore giudiziario, è normativamente fissato con riferimento al «passivo accertato», sì da non necessitare dell’intervento additivo richiesto dal giudice rimettente, e non viola il canone della retribuzione proporzionata e sufficiente, di cui all’art. 36 Cost., con conseguente non fondatezza della questione in riferimento a tale parametro.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 del decreto legislativo 4 febbraio 2010, n. 14 (Istituzione dell’Albo degli amministratori giudiziari, a norma dell’articolo 2, comma 13, della legge 15 luglio 2009, n. 94), sollevata, in riferimento all’art. 54 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Roma, sezione quarta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 14 del 2010, sollevata, in riferimento all’art. 36 Cost., dalla Corte d’appello di Roma, sezione quarta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2023.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2023